25 aprile 2020 - Gimbutas - COMUNE DI SASSO MARCONI (BO)

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Gruppo Marija Gimbutas
per la piazza virtuale del 25 aprile 2020

Patrizia Argentieri,  Matilde Betti, Marinella Borruso, Cinzia Castelluccio, Sandra Federici, Cristina Lolli, Vittoria Ravagli, Gea Rigato.

Questo 25 aprile ci fa riflettere molto più a fondo su chi siamo, su cosa vogliamo, quale società, quale vita.

Anche tra di noi, gruppo Gimbutas, lo abbiamo fatto, lo stiamo facendo. Singolarmente nelle nostre case, confrontandoci via internet.

Ci dispiace che molte persone, in particolare anziane, non possano partecipare a questo 25 aprile  perché non usano internet, questo strumento così importante spesso  fuori dalle case dei più vecchi e da quelle di chi non si può permettere computer e rete.

Allora cominciamo da qui: da una maggiore giustizia sociale che davvero vorremmo perché questo mondo che abbiamo creato o lasciato che si creasse, pensa, si muove, decide per lo più riferendosi ad una classe elevata o medio alta, o media. Chiediamoci se è possibile che ci siano persone senza tetto, bambini/e e ragazzi/e che non possono seguire le lezioni e che quindi vengono completamente espropriate del diritto all’istruzione per motivi di povertà.

La nostra comunità, quella che vorremmo anzi, ha una dimensione ideale. Pensiamo a Sasso: la natura l’ha privilegiata perché questo è un luogo bellissimo, che esprime nel profondo un paese ideale anche nelle dimensioni.  Noi ecco potremmo essere quello che sogniamo. Ma da subito ci vorrebbe qualcuno che verificasse ad esempio che le tasse vengano pagate da tutti in maniera giusta, che nessuno manchi dei beni fondamentali, che ragazze/i rimasti senza lavoro possano essere attivi in un servizio civile retribuito che li possa fare evolvere, indicando  le strade nuove che dovremmo percorrere. Intelligenze creative.

Nel nostro paese ci sono  i  “luoghi della memoria” dove l’ANPI  porta giovani e meno giovani a ripensare al passato, alle radici del nostro essere ora.

Molte volte anche noi, lavorando con le scuole, ci siamo sentite profondamente “comunità” e questo aiuta a crescere, a vivere.

 Ma ci sono per noi alcuni punti imprescindibili:

- nella comunità che vorremmo ci piacerebbe che le persone ripudiassero ogni forma di violenza e discriminazione, di odio e prevaricazione, terreni fertili per la diffusione di fascismo e razzismo. E che tutti rispettassero e amassero la Costituzione, carta comune nata da una lotta a cui parteciparono uomini e donne di diverse posizioni politiche

- le donne dovrebbero essere almeno in pari numero rispetto agli uomini in ogni luogo dove si opera, dove si  decide non solo perché questo è giusto, ma perché riflette la volontà della natura: le peculiarità dei generi influenzano in modo armonioso il corso delle cose.        

- il rispetto  per l’ambiente, dovrebbe essere alla base di ogni decisione. Riconvertire, rivedere gli utilizzi di tutto quanto inquina, lavorare di nuovo le terre e farle lavorare da chi non ha casa.     Diffondere gli orti, ripopolare le colline e farlo con chiarezza di intenti, perché vengano prodotti tutti quegli alimenti che servono alla comunità. La terra ci ha dato un fortissimo segno.

- Vorremmo che si considerassero rispettabili le "diversità" fisiche o psichiche o di provenienza, di pensiero, di religione, spesso un arricchimento per tutte/i noi.

- si dovrebbe avere maggiore considerazione per la cultura e la scuola perché  fossero fruibili da parte di tutti, per dare a tutti le stesse possibilità, secondo l'insegnamento di Don Milani

- ci piacerebbe che la solidarietà fosse alla base della convivenza superando gli steccati anche da noi molto presenti, per appartenenza a gruppi di varia natura, troppo spesso legati alla persona, non alle idee.

Che questo nostro restare chiusi ci porti ad una maggiore riflessione, alla forza e alla determinazione di operare cambiamenti radicali nella vita prossima futura nostra e della comunità locale, regionale, nazionale.  In questi giorni l’operosità di chi ha dato e dà il proprio lavoro e a volte la propria vita, sono stati sottolineati da canti, applausi, e sventolio di bandiere. Siamo grate a chi, in questo difficilissimo periodo, opera per difendere le vite umane.  Avremmo voluto che la nostra più larga comunità fosse quella europea e che ci si potesse riconoscere in una bandiera unica, amatissima. L’egoismo di alcune nazioni e di parte della nostra lo ha impedito, lo ostacola. 

Ma forse non è troppo tardi o così speriamo.

Che chi ha lottato per darci questa nostra realtà, illumini le decisioni più importanti. Aiuti il cambiamento vero. A loro il nostro ricordo, il nostro ringraziamento.

 

Per rispondere alla chiamata essere comunità Gea Rigato intepreta il monologo di Margherita Buy "Liberazione"

 

In cosa consiste la felicità? La risposta di Gianni Rodari

Per essere sicuro di non sbagliare a rispondere, sono andato a cercare in un grosso vocabolario la parola “felicità” ed ho trovato che significa “essere pienamente contenti, per sempre e per un lungo tempo”. Ma come si fa ad essere “pienamente contenti”, con tutte le cose brutte che ci sono al mondo, e con tutti gli errori che facciamo anche noi, ogni giorno dell’anno? Ho chiuso il vocabolario e l’ho rimesso in libreria, con molto rispetto perché è un vecchio libro e costa caro, ma ben deciso a non dargli retta. La felicità dev’essere per forza qualche altra cosa, una cosa che non ci costringa ad essere sempre allegri e soddisfatti (e un po’ stupidi) come una gallina che si è riempita il gozzo. Forse la felicità sta nel fare le cose che possono arricchire la vita di tutti gli uomini; nell’essere in armonia con coloro che vogliono e fanno le cose giuste e necessarie. E allora la felicità non è semplice e facile come una canzonetta: è una lotta. Non la si impara dai libri, ma dalla vita, e non tutti vi riescono: quelli che non si stancano mai di cercare e di lottare e di fare, vi riescono, e credo che possano essere felici per tutta la vita.

 

Annalisa Ballarini, da Specchio a figura intera, Lietocolle 2017

Da un cantuccio, buona buona, aspetto

la rivoluzione degli alberi in fiore,

la stagione dello sguardo innocente

germogliare sui miei occhi interrati

come bulbi di giunchiglie, aspetto

nel carapace disabitato dove il respiro

ha ancora voce, nel ventre

che ha chiamato a raccolta i rimasti,

aspettiamo cantando, se è lunga l'attesa,

insieme ai morti arrivati col vento, ogni sera

- e ci avvisino, i morti: loro sanno, sanno –

 

Vademecum per un recluso – video di Simone Cristicchi

 

L’albero/donna di Vittoria Ravagli

 

Quest’albero, che mi contiene,
ha  rami lunghi e  sottili,
braccia   protese al cielo
su cui si posano bambini e uccelli

Ha fronde aggrovigliate,
chiome fluenti, foglie,
tra cui giocando
si perde il vento.

Raccolgo i rami,
piego le braccia,
le avvolgo intorno al tronco

L’albero/donna
si fa capanna,
tana.

E’ il momento del sonno.

 

Per rispondere alla chiamata essere comunità Gea Rigato intepreta il monologo di  Mariangela Gualtieri "Bambina mia"

 

Virgilio, Eneide, Enea fugge portando suo padre sulle spalle – Letto da Toni Servillo

 

Gli sguardi della tenerezza

La Repubblica - Altrimenti 22 marzo 2020
di ENZO BIANCHI

È possibile pensare ad altro, in questo tempo in cui stiamo soffrendo a causa dei diversi atteggiamenti da assumere per difendere da questo nemico invisibile noi stessi, le persone che amiamo e gli altri?

Credo sia impossibile, anche perché non appena ci fermiamo a riflettere, ci poniamo inevitabilmente domande che non ci esentano dal pensare alla morte. Sì, la morte che ormai ha colto non solo “altri”, ma anche persone care, qualcuno con un volto per noi riconoscibile, che aveva una famiglia, degli amici, un lavoro, una vita di relazioni.
Sappiamo inoltre che quanti muoiono per questo virus vengono portati via da casa e strappati improvvisamente agli affetti dei loro cari, affetti che non possono più essere manifestati; diventano da un giorno all’altro persone sole, in mano a estranei ed entrano in un processo medico che, pur curandoli, li fa sentire abbandonati. Quanti uomini e donne ho ascoltato in questi giorni dire: «L’hanno caricato sull’ambulanza, non abbiamo potuto seguirlo, né avere sue notizie fino a quando ci è giunta la comunicazione della sua fine. E poi nessun saluto neppure al corpo morto, ma solo una bara anonima tra tante altre portate via, senza un possibile congedo».

La paura di tanti, soprattutto anziani, è di ammalarsi e morire soli, lontani da chi si ama e senza neppure quei segni religiosi così importanti per chi ha una fede cristiana. Il sentimento che molti conoscono di fronte a questi eventi è certo la compassione, un “soffrire insieme”. Questa compassione viene però vissuta in modo parziale, e in verità è ridotta a poco più che una semplice afflizione: sentimenti, emozioni, dolore, senza però poter compiere un gesto, senza poter fare nulla di concreto per chi soffre o muore.
Certo, si può anche piangere, ma senza potersi prendere cura di chi muore, in un’impotenza disperante. Siamo chiamati ad accettare un “non fare” perché qualsiasi gesto ci è impedito, al fine di vincere questo male, di predisporre tutto perché la vita possa vincere. Dobbiamo assolutamente accettare questa realtà, non esorcizzarla e neppure rimuoverla con espedienti che vorrebbero renderci ciechi e assicurarci un’immunità che non è per tutti. Siamo insieme “sulla stessa barca”, giovani e vecchi, insieme dobbiamo anche stare in silenzio e assumere queste domande mute senza cedere al fatalismo, bensì con la volontà di combattere contro la morte: la morte che deve interrogarci affinché prendiamo sul serio la vita. Pensare la morte, infatti, è pensare la vita, anche se in questo momento fatichiamo a comprenderlo. Come scrive Fernando Savater: «Si diventa umani quando si assume, anche se mai del tutto, la certezza della morte».

Intanto, proprio nello spazio chiuso nel quale in questi giorni siamo costretti ad abitare con quanti condividono con noi la vita, cerchiamo di avere sguardi di tenerezza, di scambiare parole che aiutino la convivenza, di amarci come viandanti che sanno che il viaggio finisce. Perché ciò che davvero conta è come si è percorso insieme il viaggio della vita.

 

video documentario Pasta Nera – regista Alessandro Piva

Il documentario, attraverso racconti, archivi fotografici privati e filmati di repertorio, riporta alla luce uno degli esempi più belli e dimenticati di solidarietà e slancio unitario della storia d’Italia.

Tra la fine della Seconda Guerra Mondiale e il 1952 migliaia di famiglie del Centro-Nord, soprattutto emiliane, nel pieno del fervore della ricostruzione, accolsero temporaneamente nelle loro case bambini laceri e denutriti provenienti dalle zone più colpite e povere del Meridione. Furono principalmente le donne dell’Unione Donne Italiane il motore organizzativo dell’incredibile iniziativa, espressione di una nuova concezione della solidarietà e dell’assistenza, capace anche di supplire all’assenza delle istituzioni.

 

David Grossman: "Dopo la peste torneremo a essere umani"

19 MARZO 2020 DI DAVID GROSSMAN

Ci saranno nuove priorità. Diremo addio al superfluo e sì alla tenerezza. Il futuro dopo l’epidemia immaginato dal grande scrittore israeliano

…Per molti l’epidemia potrebbe trasformarsi in un evento cardine, fatidico per il prosieguo della vita. Quando si attenuerà, la gente potrà finalmente uscire di casa dopo una lunga quarantena e scoprire nuove e sorprendenti possibilità, generate forse dal contatto con il fondamento stesso della nostra esistenza. Magari la morte tangibile e il miracolo della salvezza scuoteranno donne e uomini. Molti perderanno i loro cari, il lavoro, la fonte di guadagno, la dignità. Ma quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge, o al partner. Di mettere al mondo un figlio, o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui.

La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo — e non il denaro — è la risorsa più preziosa. Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere. Uomini e donne si chiederanno — per poco, probabilmente, ma ci faranno un pensierino — perché sprecano l’esistenza in relazioni che provocano loro amarezza. Ci sarà anche chi rivedrà le proprie opinioni politiche, basate su ansie o valori che si disintegreranno nel corso dell’epidemia. Ci sarà chi dubiterà delle ragioni che spingono un popolo a lottare contro un nemico per generazioni, a credere che la guerra sia inevitabile. È possibile che un’esperienza tanto dura e profonda come quella che stiamo vivendo induca qualcuno a rifiutare posizioni nazionalistiche per esempio, tutto ciò che ci divide, ci aliena, ci porta a odiare, a barricarci. Ci sarà forse anche chi, per la prima volta, si domanderà perché israeliani e palestinesi continuino a lottare e a distruggersi la vita a vicenda da oltre un secolo, in una guerra che avrebbe potuto essere risolta da tempo.

Il ricorso all’immaginazione nell’attuale baratro di disperazione e di paura ha una forza tutta sua. Ci permette di vedere non solo scenari catastrofici ma di mantenere una certa libertà mentale. In tempi facili alla paralisi è una specie di ancora che, dal baratro della disperazione in cui ci troviamo, lanciamo verso il futuro, trascinandoci poi verso di essa. La capacità di immaginare tempi migliori significa che non abbiamo ancora lasciato che l’epidemia e la paura prendano il sopravvento su di noi. C’è quindi da sperare che, quando il pericolo del contagio sarà passato e si respirerà un’atmosfera di risanamento e di ripresa, la gente mostrerà una diversa disposizione di spirito: sarà pervasa da un senso di leggerezza, di nuova freschezza.

Potrebbero scoprirsi, per esempio, gradevoli segnali di innocenza, privi di qualsiasi cinismo. E forse, per qualche tempo, saranno consentite anche manifestazioni di tenerezza. Forse capiremo che questa micidiale epidemia ci consente di liberarci di strati di grasso, di laida avidità, di pensieri grossolani e rozzi, di un’abbondanza divenuta ormai eccesso che comincia a soffocarci (perché diavolo abbiamo accumulato così tanta roba? Perché abbiamo seppellito la nostra vita sotto montagne di oggetti che non vogliamo?).

Ci sarà forse chi, osservando gli effetti distorti della società del benessere, si sentirà nauseato e fulminato dalla banale, ingenua consapevolezza che è terribile che ci sia gente molto ricca e tanta altra molto povera. Che è terribile che in un mondo opulento e sazio non tutti i neonati abbiano le stesse opportunità. Facciamo parte del medesimo tessuto umano, labile al contagio come stiamo scoprendo, e il bene di ciascuno di noi è, alla fin fine, quello di tutti. Il bene del globo su cui viviamo è anche il nostro, ed è determinante per il nostro benessere, la purezza del nostro respiro, il futuro dei nostri figli.

E forse anche i mass media, presenti in modo quasi totale nelle nostre vite e nella nostra epoca, si chiederanno con onestà quale ruolo abbiano giocato nel suscitare il generale senso di disgusto che provavamo prima dell’epidemia. Nel darci la sensazione che gente dagli interessi fin troppo palesi ci manipoli, facendoci il lavaggio del cervello e derubandoci del nostro denaro. Non parlo dei mezzi di comunicazione di massa seri, coraggiosi, incisivi, inquisitori, ma di quelli che da tempo hanno trasformato le masse in gregge, e talvolta in teppaglia.

Questi scenari si avvereranno? Chi lo sa. Semmai dovessero, temo che si dileguerebbero rapidamente e le cose tornerebbero a essere come prima. Prima dell’epidemia. Prima del diluvio. È difficilissimo indovinare cosa succederà fino a quel momento. Ma faremmo meglio a continuare a farci domande, come se questo fosse una medicina, fino a che non troveremo un vaccino efficace contro il flagello.

Traduzione di Alessandra Shomroni

 

Ragazzi, unitevi per salvare la nostra Europa

01 APRILE 2020

Uno scrittore di frontiera racconta con grande pathos lo sgretolarsi di un sogno bellissimo, quello di un Continente solidale: i populisti sono in agguato per sfruttare le paure da virus mentre tutti gli Stati danno il peggio. Ci restano solo i giovanissimi.

DI PAOLO RUMIZ
Non mi riconosco più in nessuno di questi funesti stati nazione che riemergono. Non nella Germania che dimentica di essere uscita dalle macerie grazie all’azzeramento del debito e all’aiuto di manodopera europea. Non nella Francia che ci ha snobbati fino a ieri. Non nella Spagna che ha ballato fino all’ultimo sul Titanic che affondava. Non nell’Inghilterra, in mano a una classe dirigente di dementi spocchiosi. Non nella Polonia che porta i suoi vescovi a benedire le frontiere. Ma non mi riconosco nemmeno in questa mia Italia che oggi deve ricorrere a “eroi” fino a ieri vilipesi (medici, maestri, pubblici ufficiali) dopo aver spolpato un patrimonio nazionale per ingrassare dei ladri. Un’Italia che nell’emergenza costruisce più velocemente di chiunque reparti di terapia intensiva dopo averli smantellati fino a ieri, come dice l’epicentro stesso del disastro, la Lombardia.

Non credo a nessuna delle nazioni. Ma agli europei sì. Ai giovani europei, che saranno le prime vittime del crollo e che proprio per questo devono fare massa critica per rafforzare l’Europa subito, smantellando l’economia del saccheggio, partendo da un manifesto in tutte le lingue capace di dare una sberla ai nostri palazzi ridotti al sonnambulismo. Ragazzi, dovete uscire dal silenzio, muovervi per evitare la disgregazione, il si-salvi-chi-può, e che i ricchi diventino ancora più ricchi e i poveri ancora più poveri. Non voglio che diventiate, se vi va bene, lustrascarpe di oligarchi in crociera di lusso. Sta a voi evitare l’imbarbarimento, lo scontro sociale, il saccheggio dei negozi, l’assalto alla diligenza e di conseguenza la dittatura, come nel Togo o nella Sierra Leone. E io rifiuto che quelli della mia età si ritrovino a piangere sulla vostra generazione, quando non abbiamo ancora smesso di piangere su quella del passato. Quella degli uomini e donne che hanno fatto l’Europa e che ora la peste si porta via senza nemmeno il conforto della famiglia.

 
 
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